La Festa del Patrono

La festa religiosa più sentita al mio paese è a mio parere quella patronale, soprattutto per la grande mobilitazione di gente. Devo confessarlo: da piccolo non riuscivo proprio ad afferrare il significato di tanta solennità, il prete celebrava la messa con gran pompa ed io me ne stavo defilato in Chiesa, accanto alla mamma, attendendo spazientito le parole conclusive: andate, la messa è finita. Quelle parole suonavano alle mie orecchie come un canto melodioso, un atto liberatorio.

Mi capirete, a quell’età non mi riusciva proprio di contenere la vivacità tipica dell’infanzia, momentaneamente rintuzzata dal predicare pomposo, che imponeva silenzio e ascolto. Le mie membra, quasi atrofizzate, davano già segni di irrequietezza, quando giungeva puntuale il rimprovero della mamma, accompagnato da uno scappellotto.

Il 16 luglio iniziava la novena di san Giacomo. Le campane per tutta la durata della novena suonavano a doppio o a festa. Il lungo scampanio echeggiava per tutta la valle annunziando l’arrivo della tanto attesa festività.

Normalmente la statua del Santo giaceva in una nicchia ottenuta nella parete laterale della navata principale della Chiesa, nel giorno della Vigilia ne veniva tolta e collocata su uno scranno, addobbato con drappi neri e gialli.

Nel giorno del patrono si teneva un grande mercato, che comprendeva la fiera del bestiame. Appena ci si svegliava al mattino, era d’obbligo una visita al mercato, che dava una fisionomia inconsueta alle strade e a tutto il paesaggio. Si vedevano bancherelle ovunque che vendevano di tutto: utensili per la casa, articoli per il cucito e di pelletteria, biancheria per uomo, donna e bambino e tant’altro. Per le vie si spandevano odori da far venire l’acquolina in bocca anche a chi avesse appena desinato. A tal proposito si vendevano grossi panini ripieni di acciughe aromatizzati con menta e aceto. L’essenza acre dell’aceto mi disgustava. Sapevo che esso si formava dalla fermentazione del vino, al quale avevo sempre attribuito un significato negativo associandoli agli inveterati bevitori delle taverne. Via facendo una piacevole fragranza di noccioline abbrustolite veniva percepito dalle mie papille gustative. Per non parlare della gelateria itinerante “Tulimieri”; alla sola vista della roulotte mi si illuminavano gli occhi, e quando si usciva la sera con i genitori, sapevo che mi era concesso chiedere, bastava uno sguardo furtivo che veniva interpretato come un consenso pieno.

Arrivava il 25 luglio, il caldo non aveva scoraggiato l’intenzione di nessuno che volesse trascorrere come si conviene occorrenze del genere, l’aria festosa si leggeva sui volti della gente, la festa patronale aveva messo di buon umore un po’ tutti, anche il tempo propizio e tutto il Cielo sembravano partecipare con gioia all’evento.

Finita la messa si snodava dalla Chiesa la processione per le vie principali del paese. Le strade sembravano gremite come un fiume in piena, in testa a tutti la banda, con i suoi trombettisti, flautisti e clarinettisti vestiti di tutto punto, seguita dal parroco, i chierichetti, dalla statua di San giacomo, portata a spalla dai più fervorosi, e da una fiumana di fedeli.

Chi non aveva potuto partecipare alla processione, si affacciava dai balconi e salutava il Santo del paese e parte dei conoscenti. La fronte dei partecipanti grondava di sudore, mentre questi intonavano al patrono i canti popolari con tutta la voce che avevano in gola.

Poi finiva, il giorno dopo tutto ritornava nell’ordinario non senza qualche commento nostalgico. Bisognava attendere un anno intero prima che la valle intera relegasse un attimo la solita routine e vivesse giorni di sana religiosità.

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